IMPARARE AD AMARSI, ANCHE CON LA MALATTIA

Giovanna a undici anni era già orfana di padre, a quattordici era già al lavoro come operaia in regola, a trentadue conquistava – grazie alle scuole serali
– il Diploma di Dirigente di comunità, a cinquantotto anni – dopo anni
di assistenza alla madre ed un percorso lavorativo nel mondo della sanità
– ha fatto pace con il morbo di Parkinson, la malattia neurodegenerativa
con la quale convive da nove anni.
Alta, bionda e curata ha affrontato a mani nude – con la propria forza d’animo ed una straordinaria capacità di accettazione – quella malattia subdola, difficile da diagnosticare, che ha fatto la sua comparsa in una tranquilla passeggiata in Restera, con una gamba che cedeva senza motivo.
Giovanna era – per la sua Comunità – la piccola Loretta (un secondo nome, un vezzo) graziosa e gentile, sempre pronta ad aiutare la mamma e brava
a tenere in ordine. Assistenza, lavoro, casa: poco spazio per giochi, svaghi
e frivolezza. Perché l’infanzia di Giovanna è stata segnata dall’alcol
– che aveva stregato il padre – quel bell’uomo giovane di cui sua madre
si era innamorata senza mai pentirsene. Morto a soli quarant’ anni di infarto dopo una vita passata tra alcol e ricoveri al S. Artemio- “ho potuto capire dopo anni” – racconta Giovanna- “che in realtà anche mio padre era fragile
e sofferente solo quando ho conosciuto un infermiere del S. Artemio
che me lo ha descritto sotto un’altra luce, diversa dai miei ricordi di bambina, che me lo restituivano solo come un disoccupato che beveva”.
Nulla di regalato per Giovanna: ogni snodo, ogni scelta, ogni percorso
è stato il frutto di una fatica e di una conquista.
Difficili sono stati gli anni di assistenza alla madre, per quasi vent’anni malata di cancro, sopravvissuta a prognosi infauste. Così come è stato forte
il segnale di fede che ha ricevuto con la malattia della sorella, di due anni
più giovane, colpita a soli quattro anni da meningite e risvegliatasi
nel giorno di S. Antonio, proprio il Santo cui la mamma era devota.
Per passare dalla fabbrica di pelletterie agli Ospedali, a Giovanna
non è bastata solo la maturità, conquistata da privatista con l’aiuto di amici
e notti di studio, ma le è servito il percorso di OSS (Operatrice Socio
Sanitaria), frequentato con ottimi risultati per due anni, che le ha consentito di inserirsi nel mondo della sanità, conoscendo vari reparti e funzioni
e collocandosi poi nelle Segreterie di Medicina interna e Pneumologia e, negli ultimi anni, nella Biblioteca ospedaliera dove ricopriva il ruolo
di responsabile. E se la sanità è stato l’ambito di realizzazione lavorativa,
la salute, per Giovanna, è stata la partita più importante della vita.
Quella che l’ha costretta a rimettersi in gioco, ad ascoltarsi, a comprendere nel profondo il significato della convivenza con la malattia.
Convinta che le “malattie si alimentino col pensiero”, Giovanna è giunta all’accettazione totale del morbo di Parkinson dopo un lungo percorso
di ascolto del proprio corpo che l’ha portata ad acquisire la consapevolezza necessaria per gestire la malattia. “Pur conoscendo molti medici” – spiega Giovanna – “sono arrivata dal neurologo e alla diagnosi dopo anni di ricerche e tentativi, passando anche attraverso le accuse di ipocondria, speranze, esami, attese, terapie per il mal di testa o per la depressione.
La molteplicità dei sintomi e la complessità sanitaria generata da questa malattia subdola e ‘multitasking’, hanno fatto sì che arrivassi alla diagnosi clinica con Parkinson conclamato e solo per risposta alla terapia prescritta dalla neurologa che ha deciso di fare il grande passo prescrivendo
la levodopa. “Oggi ho una terapia che funziona e che so dosare, ho alcune giornate molto brutte che poi però passano, convivo con il Parkinson
e se dovessi dare una mia lettura, posso dire che mi ha insegnato a dare valore alle cose importanti, a stabilire le priorità, mi ha aiutato a rispettare
me stessa e ad ascoltarmi di più. Forse mi ha insegnato l’amore vero.
Mi ha portato all’Associazione malati di Parkinson nel 2012,
e nell’Associazione ho avuto un’altra grande occasione di rendermi utile
agli altri malati. Ci sono arrivata come il “brutto anatroccolo”, anche se ero tra le più giovani, oggi mi sento quasi un cigno cresciuto. Coi volontari abbiamo fatto squadra, ho avuto la possibilità di trasformare la malattia in una nuova occasione di relazione con gli altri. Ho conosciuto persone meravigliose
con le quali si è stabilita una sorta di sacra alleanza che ci tiene unite
– soprattutto tra donne – ben oltre la malattia.
Sono i tasselli di un’esperienza umana straordinaria. Nel percorso comune della sofferenza, scattano meccanismi unici ed indimenticabili.
Nel lockdown abbiamo cercato, in collaborazione con i medici di Neurologia,
di essere vicini a tutti ognuno per la propria parte, con telemedicina
ed attraverso attività telematiche. Ogni giorno mi alzo, lavoro, organizzo iniziative e videoconferenze, avvio collaborazioni con le altre Associazioni
di malati cronici per ottenere servizi, agevolazioni, informazioni.
La malattia è, semplicemente, una dimensione in cui bisogna imparare
a stare. Ho avuto alcune grandi fortune ed una certezza: la fede cattolica prima di tutto, che non mi ha mai abbandonato e l’incontro con Lucia,
la psicoterapeuta che mi ha accompagnato per un significativo pezzo
di vita, grazie alla quale ho potuto compiere il mio percorso di accettazione e convivenza serena. Ho un compagno, Gigi, che da quattro anni mi aiuta
e mi supporta, ed un grande gruppo, quello dei volontari e degli amici malati che ho l’onore di rappresentare.”