QUEL LAVORO IN UFFICIO:
COL PENSIERO FISSO DELLA RESPONSABILITÀ

G.T.: si presenta così questa signora bionda, dallo stile casual ma elegante, che accetta di parlare di sé in un momento di grande stanchezza.
Lo fa perché si fida, ed è convinta che sia giunto il momento di liberarsi
di certi tabù, di infrangere le regole del perbenismo e di non tenersi dentro certi macigni. Per il bene delle altre donne e per dare un segnale concreto: libertà è anche poter parlare dei propri problemi e delle malattie scomode. G.T. ha cinquantasette anni, una vita apparentemente normale e tipicamente trevigiana. Figlia di un piccolo imprenditore del settore edile e di una mamma casalinga, ha frequentato il Liceo classico Canova ed ha una laurea in lingue, ha insegnato pattinaggio e pallavolo, ha animato sagre, grest e parrocchie, ha un marito architetto ed un lavoro in un’Associazione di categoria
in cui si è potuta realizzare. G.T. ha molte amicizie e relazioni: gli anni
di lavoro nelle aziende prima e nelle Associazioni di categoria poi,
le hanno aperto molti contatti, conoscenze, esperienze, rapporti istituzionali. Una gioventù libera, aperta, ricca di promesse, successi a scuola, opportunità e la possibilità di scegliere il primo lavoro dopo la laurea.
Ha imboccato da subito la strada del lavoro in azienda, inseguendo
un sogno: lavorare alla Benetton, nell’area commerciale.
“Era, negli Anni ’90, un marchio che rappresentava il sogno di tutti noi ragazzi, mi sentivo rappresentata, era il nostro orgoglio”.
G.T. ha un lavoro complesso, a tratti pesante, con scadenze, che non finisce mai, che torna nei pensieri e nelle telefonate anche alla sera e alla domenica: ma grazie a quel lavoro, a quello stipendio sicuro, ha potuto riscattare la casa del padre, impegnata a causa di una disavventura imprenditoriale
che lo ha costretto a chiudere quella piccola impresa che – per molti anni buoni – ha dato frutti, benessere, studio e prospettive alla famiglia.
Ha un matrimonio solido e felice celebrato in un giorno funesto: mentre stava per sposarsi, moriva la zia materna, malata da tempo, amata sorella
della madre. Un ricordo struggente che si porta nel cuore: quella giornata
di festa tanto attesa con il peso del lutto, la mamma distrutta e senza i cugini più cari. Un dramma che non ha però minato l’unione di coppia, che resiste
da oltre venticinque anni. “Mio marito” – conferma – “mi capisce sempre, c’è, è stata la mia fortuna”.
Ama l’arte, la cultura e la cucina ma fa i conti, da sempre, con la malattia mentale del fratello e con un padre ora anziano. Un fratello di cui si prende cura in prima persona dopo la morte della madre (2012) e che – forse inconsciamente – l’ha portata a scegliere di non avere figli.
“Mio fratello ha tre anni meno di me – racconta G.T. – fin da subito sembrava un bambino vivace, disattento, con problemi. All’epoca si diceva caratteriale. La maestra aveva consigliato a mia mamma le scuole differenziali.
I miei genitori si sono preoccupati molto, hanno fatto quello che potevano, ma nessuno ci ha mai spiegato in cosa consistesse sul serio la malattia mentale. Siamo arrivati – dopo anni – a diagnosi confuse. Abbiamo affrontato la malattia così, senza risorse psicologiche e senza gli adeguati mezzi
di comprensione: nel lungo e tortuoso percorso, fortunatamente qualche buon consiglio e qualche psichiatra illuminato, ci hanno fatto fare le scelte giuste ed ora I.C. (il fratello) lavora – grazie al concorso vinto ed alla legge 104 – in una struttura pubblica come addetto al magazzino.
“Ringrazio quel momento – spiega G.T. – perché ha rappresentato la svolta: una buona terapia ed un lavoro possono cambiare il destino di queste persone. Ho sempre sentito la responsabilità della sua cura ed ogni giorno mi chiedo che ne sarà di lui se mi dovesse capitare qualcosa. Al mattino
mi alzo, vado al lavoro, ma il primo pensiero è per loro: mio padre anziano che non ci vede più e mio fratello, fragile e sensibile.
Mi occupo delle medicine, della loro casa, mi preoccupo di quello
che mangiano. Per le ferie mi devo organizzare: o me li porto o trovo
qualche aiuto. Per anni, non riuscivo a parlare del mio problema,
di mio fratello, lo stigma della malattia mentale negli ambienti
che frequentavo era troppo alto. Poi la burocrazia, l’invalidità, le carte,
le visite, i certificati: nessuno ci ha mai spiegato a cosa andavamo incontro
e con quali mezzi potevamo affrontare questa malattia che non ha nemmeno mai avuto un nome preciso e definito. L’ho capito giorno dopo giorno, fatica dopo fatica, sola davanti ai suoi crolli e alle sue urla. Ho avuto la fortuna
di avere al mio fianco un marito eccezionale, che mi ha sostenuto
e compreso e che condivide con me il peso della responsabilità ed allevia
le paure. Oggi, quando vado al lavoro, sono contenta di essermi salvata,
di aver mantenuto l’autonomia e la forza per tenere insieme questa
mia famiglia strana e molto amata, di aver potuto pagare il mutuo
e di aver protetto mio padre dal fallimento. Il lavoro è autonomia, libertà, possibilità di cura, riscatto, forse anche felicità. Oggi posso raccontare da dove sono partita, quando non capivo che quelle urla non erano
le vivacità di un bambino, ma le avvisaglie di una malattia cronica”.